Golfo di Augusta sempre più a rischio Chernobyl-Fukushima

Gli abitanti del polo chimico e petrolifero di Augusta-Melilli-Priolo, in provincia di Siracusa, sanno di vivere in una delle aree più a rischio e inquinate d’Italia. Lo chiamano giustamente il “golfo della morte”. Alle spalle, le grotte e le cave naturali dei monti Climiti, per decenni depositi delle armi chimiche in dotazione alle forze armate italiane e statunitensi. Sulla costa, selve di ciminiere, raffinerie e oleodotti: hanno avvelenato le acque e i fondali con arsenico, mercurio, metalli pesanti, diossine, idrocarburi e scorie cancerogene. Infine il porto, uno dei più grandi d’Italia, 6,8 km di pontili dove si movimentano annualmente oltre 31,5 milioni di tonnellate di prodotti petroliferi. Un’area del complesso è off limits: serve per gli attracchi delle unità della marina militare impegnate nei pattugliamenti del Canale di Sicilia e per rifornire di carburante e munizioni la VI Flotta USA e le navi da guerra degli alleati NATO. Con la guerra alla Libia il via vai militare si è fatto ancora più intenso ed è sempre meno raro osservare nel golfo le minacciose sagome dei sottomarini nucleari delle classi “Ohio” e “Los Angeles” della US Navy, quelli che hanno sferrato gli attacchi con centinaia di missili da crociera “Tomahawk” all’uranio impoverito. Presenze dall’insostenibile impatto ambientale che mettono ancora più a rischio la sicurezza e la salute della popolazione, ignara - stavolta - di convivere a fianco di reattori simili a quelli della famigerata centrale di Chernobyl.

L’intensificarsi nella rada di Augusta dei transiti e delle soste dei sottomarini USA è stato denunciato dalla Campagna per la smilitarizzazione di Sigonella e Legambiente Sicilia. Con un’interrogazione al Presidente della Provinciali Siracusa, il consigliere Alessandro Acquaviva (Gruppo Misto – SEL), ha chiesto invece di sapere “se sono state attuate dagli organi competenti tutte le procedure finalizzate a garantire alla popolazione la conoscenza sui rischi radiologici presenti e sulle eventuali misure di emergenza da adottare in caso di incidente nucleare. “L’art. 130 del decreto legislativo 230/95 – aggiunge Acquaviva - prevede che le popolazioni che risiedono in prossimità degli impianti siano regolarmente aggiornate sulle misure di protezione sanitaria applicate, sulla natura e le caratteristiche della radioattività e suoi effetti sulle persone e sull’ambiente, sul comportamento da adottare in caso d’incidenti e sulle autorità responsabili degli interventi di protezione e soccorso. Le informazioni su quanto accade nel siracusano sono invece inesistenti”. Dove si è invece avuto accesso ai piani di emergenza di altri porti nucleari (La Spezia, Taranto, Gaeta e La Maddalena), la loro valutazione ha dato esiti assai poso rassicuranti. E i punti di attracco e di fonda delle imbarcazioni nucleari sono posti a distanze minime da aree densamente abitate.

I reattori utilizzati per la propulsione di mezzi militari navali pongono serissimi problemi di sicurezza. “I sottomarini nucleari sono inevitabilmente sistemi accident prone, ovvero possono subire vari tipi di incidenti, anche molto gravi, con frequenza notevolmente maggiore rispetto ai sistemi nucleari civili”, segnala uno studio pubblicato nel novembre 2004 dal Politecnico di Torino, a firma di Massimo Zucchetti (docente di Impianti nucleari), Francesco Iannuzzelli (Peacelink) e Vito Francesco Polcaro (CNR). “In campo civile esistono numerosi sistemi di sicurezza e di emergenza che sono obbligatoriamente presenti nel reattore nucleare, senza i quali l’impianto non ottiene il permesso di funzionamento da parte delle autorità preposte. Su un sottomarino, la presenza di questi sistemi è assai più contenuta, per ragioni di spazio, di peso e di funzionalità. Inoltre, essendo vascelli militari, i sottomarini nucleari sono soggetti all’approvazione e alla responsabilità esclusivamente delle autorità militari, notoriamente e costituzionalmente poco sensibili al problema dell’impatto ambientale dei loro armamenti e della salute di coloro che li adoperano. Di conseguenza ci ritroviamo col paradosso che reattori nucleari che non otterrebbero la licenza di esercizio in nessuno dei paesi che utilizzano l’energia atomica, circolano invece liberamente nei mari”.

“I sottomarini sono progettati in genere per resistere alla pressione del mare non oltre i 500 metri di profondità”, aggiungono i tre ricercatori. “Se quindi uno di essi affonda e finisce a profondità maggiori, il vascello si danneggia irrimediabilmente e non si può fare affidamento sul contenimento di eventuali sostanze inquinanti a bordo. Siamo cioè di fronte ad una bomba ecologica aperta e soggetta ad interazione con le acque, incapace di impedire la dispersione nell’ambiente delle sostanze radioattive”. I sommergibili affrontano inoltre condizioni operative, anche in tempo di pace (esercitazioni, pattugliamento, etc.), che “possono comportare altri incidenti come l’esplosione di siluri, collisioni, urti col fondale, dalle conseguenze pericolose per l’impianto nucleare a bordo”. La statistica sul numero e la gravità di incidenti avvenuti in passato a questo tipo di reattori è amplissima, con dispersioni in mare di grandi quantità di radioattività e molte vittime. In quaranta anni, si sono verificate un centinaio di emergenze nucleari o radiologiche. “Ricerche in corso dimostrano la correlazione fra la presenza di sommergibili a propulsione nucleare e la concentrazione di elementi radioattivi alfa-emettitori in matrici biologiche marine”, segnala lo studio del Politecnico di Torino.

“Le caratteristiche dei reattori civili e militari sono analoghe, ma su un mezzo navale non possono essere imbarcate pesanti schermature di cemento e calcestruzzo, né potrà essere sempre garantita nelle vicinanze un’adeguata assistenza in caso di incidente”, segnala il fisico Giuseppe Longo dell’Università di Bologna. Dal punto di vista della tipologia degli incidenti e della quantità di radioattività diffusa, nel caso di navi e sottomarini, oltre alla veicolazione degli inquinanti nell’atmosfera si ha una diffusione anche attraverso l’acqua, con effetti sull’ecosistema marino. Tutt’altro che remota la possibilità di un surriscaldamento del nocciolo del reattore per il mancato funzionamento del circuito di raffreddamento e finanche la fusione parziale o totale del nocciolo, un incidente dalle conseguenze catastrofiche. “La fusione del nocciolo è un evento ipotizzato dai piani di emergenza di Taranto e La Spezia”, rileva il fisico Antonino Drago dell’Università di Napoli. “Ciò provocherebbe un possibile cataclisma tipo maremoto, dovuto allo sfondamento dello scafo da parte del nocciolo che fonde o evapora a milioni di gradi fondendo anche tutto ciò che incontra; si leverebbe una nube radioattiva che spazzerebbe larghe zone seminando morte, provocando un inquinamento del mare in proporzioni inimmaginabili, e in definitiva, attraverso le piogge, dell’acqua potabile e dei prodotti agricoli”.

Un caso di avaria all’impianto di raffreddamento, con conseguente perdita di refrigerante (LOCA = Loss of Cooling Accident) è avvenuto il 12 maggio 2000 al sottomarino d’attacco britannico HMS Tireless, mentre transitava al largo della Sicilia. Dopo aver ha spento il reattore, il comandante chiese di potere fare ingresso in un porto italiano, ma il permesso gli fu negato dalle autorità competenti per motivi di sicurezza. Alla fine il sottomarino si diresse nel porto di Gibilterra; l’entità dei danni subiti dal reattore costrinse l’unità all’ormeggio per diversi anni, generando le proteste della popolazione e una querelle diplomatica fra Gran Bretagna e Spagna.

Una tragedia ancora più grave avvenne venticinque anni prima nelle acque del Mar Ionio meridionale. La notte del 22 novembre 1975, la portaerei USS John F. Kennedy entrò in collisione con l’incrociatore USS Belknap, armato di missili nucleari “Terrier”. A bordo di questa unità scoppiò un incendio che giunse a pochi metri dalle testate (fu lanciato uno dei più alti livelli di allarme nucleare, il cosiddetto broken arrow – freccia spezzata). Le fiamme causarono la morte di 7 uomini dell’equipaggio. “Se le fiamme avessero raggiunto le testate atomiche, sarebbero esplose con effetti facilmente immaginabili, provocando la contaminazione radioattiva di un’area enorme, in teoria gran parte dell’Italia meridionale”, ha commentato l’esperto di Greenpeace International William Arkin, in forza all’esercito USA dal 1974 al 1978. L’incrociatore Belknap, parzialmente distrutto, fu rimorchiato nel porto di Augusta da un’altra unità navale USA. Nella città siciliana approdò il successivo 26 novembre pure la portaerei John F. Kennedy, anch’essa dotata di armi nucleari. Mentre il Belknap restò in rada per diversi giorni, la portaerei lasciò Augusta il 28 novembre per dirigersi a Napoli, dove fu sottoposta ad alcuni lavori di riparazione.

Su quanto accadde realmente quella maledetta notte del 1975 nelle acque ad est della Sicilia esistono scarne informazioni. Un rapporto del giugno 1976 del Comando del Carrier Airborne Early Warning Squadron 125 dell’US Navy ricorda che il 14 novembre 1975 “era stata avviata un’esercitazione di guerra anti-aerea (Anti-Air Warfare Exercise) per valutare ulteriormente le capacità di intercettazione a largo raggio dei velivoli E-2C ed F-14”. “Alle ore 22 del 22 novembre, la Kennedy e il Belknap si urtarono in mare durante le operazioni aeree notturne”, prosegue il rapporto. “Gli E-2C dello Squadrone 125 presero immediatamente il controllo della pista di volo della portaerei e misero rapidamente in salvo tutti gli aeroplani in una struttura diversa, la facility aeronavale di Sigonella, in Italia. A bordo della Kennedy suonarono i sistemi d’allarme e la nave fu impegnata nel combattere le fiamme che si svilupparono. Gli appelli eseguiti per tutta la notte permisero di localizzare tutto il personale dello squadrone, e parecchi degli uomini s’impegnarono attivamente nelle operazioni di spegnimento dell’incendio e di salvataggio”.

Ancora più drammatico il racconto di Tom Pruitt, uno dei militari imbarcati nella fregata USS Bordelon, giunta in soccorso delle unità in collisione. “La task force navale era posta sotto il commando dell’ammiraglio Dixon che seguì ogni fase di quella notte, dando personalmente gli ordini di assistenza al Belknap. Metà dell’incrociatore era investito dalle fiamme e successivamente ho appreso dagli uomini a bordo, che quelli che stavano a prua non sapevano se lo scafo si fosse squarciato a metà. Così come non lo sapevano quelli che stavano a poppa. Inizialmente l’ammiraglio Dixon ordinò alla fregata USS Claude Ricketts di posizionarsi a fianco del Belknap controvento, per spegnere l’incendio. Dopo alcune ore, egli si rese conto che non era questo il lavoro che andava fatto. Fu allora ordinato alla Bordelon di affiancare il Belknap sottovento alle fiamme e al fumo, in modo da poter dirigere il getto d’acqua nell’area dove nessuno poteva accedere in altro modo. Il nostro skipper, George Pierce, tenne la Bordelon a meno di 15 piedi dalla fiancata della Belknap – in mare aperto – fino a quando le fiamme non furono messe sotto controllo. Successivamente la Bordelon rimorchiò il Belknap sino alla baia di Augusta, in Sicilia, e aiutò l’equipaggio dell’incrociatore nelle attività di riparazione che durarono tre giorni”.

La foto di un ufficiale dell’US Navy immortalò l’incrociatore in rada ad Augusta il 23 novembre 1975. Anche se il ponte appare in parte intatto, la struttura d’alluminio dello scafo sembra essersi fusa del tutto.

Commenti

  1. Quante persone che abitano in questa zona sono allo scuro di questa incredibile quanto pericolosa situazione.
    Una spada di Damocle costantemente appesa sulle nostre teste.
    Complimenti per il dettagliato articolo che ho avuto modo di leggere sia su "La civetta" che su "Sicilia Libertaria".

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